Pensieri | Tempo di lettura 4′ |
Sono nato in un appartamento che si affacciava sulla Via Tiburtina, poco lontano dalla Stazione. Ci sono rimasto fino all’età di 8 anni.
Sono poi cresciuto in un condominio, non distante dal primo, composto da un centinaio di famiglie. Tra queste c’erano ovviamente persone di tutte le età. Un giorno salendo in ascensore conobbi un mio coetaneo e da allora siamo amici.
Il palazzo era collegato a un altro edificio che ospitava una cinquantina di appartamenti, al secondo piano della Scala A viveva un bambino che frequentava la mia stessa classe alla scuola media, anche con lui siamo amici da allora.
Se ci fosse stato un lockdown negli anni 80, io avrei continuato a incontrare i miei amici senza praticamente muovermi da casa. Per rispettare le norme ci saremmo visti con la mascherina e saremmo rimasti a un metro di distanza. Ci saremmo seduti per le scale tra il quinto e il sesto piano come facevamo anche allora. Avremmo continuato a parlare dei sogni del futuro e, vista la situazione ucronica descritta, ci saremmo aiutati a superare la paura e a crederci ancora.
Qualche giorno fa ho ascoltato un racconto bellissimo che mi ha fatto Valter, il carrozziere di Via Cimarra nel rione dove vivo.
Ha esordito dicendo: “Questo posto è diventato triste” e non si riferiva agli eventi noti di quest’anno.
“Vedi tutte queste serrande chiuse? Quando ero ragazzino io(anni 60) erano tutte aperte e il rione era pieno di vita!”.
“Lì c’era un forno e qui intorno ce n’erano almeno altri tre”, ha detto, continuando poi a raccontarmi tutte le attività dei dintorni.
“Eravamo otto figli, non c’avevamo niente ma eravamo felici! Oggi c’avemo tutto ma ce manca sempre qualche cosa!”
“Correvamo in giro per il rione, ci conoscevamo tutti, le famiglie si aiutavano tra loro…”
Le sue parole erano piene di nostalgia e così vive da farmi quasi vedere quello che raccontava, forse un po’ aiutato dai miei ricordi del rione da bambino, quando passavo qualche giorno a casa dei miei nonni, che oggi è la mia.
Avrei voluto che il racconto continuasse all’infinito, eventualmente anche con un tour per le piccole stradine che mi girano intorno al palazzo, ma era l’ora di pranzo e quindi si è interrotto.
Oggi vivo nel palazzo appena citato, in un condominio di sedici appartamenti, alcuni sono disabitati perché ospitano un Bed&Breakfast o perché i proprietari sono altrove; altri hanno affittuari che cambiano di continuo: stranieri o lavoratori di passaggio.
Anche i volti che vedo nelle finestre dirimpettaie sono sempre diversi.
Al posto dei forni e degli artigiani di cui mi parlava Valter ci sono ristoranti, pub, gelaterie e più in generale attività di somministrazione mordi e fuggi.
In condizioni normali il Rione è sempre affollato anche se in realtà disabitato. E’ una destinazione di persone che vengono da fuori, un set di comparse senza gli attori protagonisti.
Così, quando si fermano le riprese e il ciak non batte, torna deserto, con le persiane e le serrande chiuse.
Di certo questo è uno degli esempi più eclatanti della mancanza di un tessuto sociale che ponga le basi sul concetto di vicinato, di mutua assistenza e di collaborazione, ma ritengo che l’attenzione verso questo aspetto sia da prendere in debita considerazione ovunque in una città come Roma.
E’ proprio in realtà molto grandi e dispersive come la Capitale che ci si dovrebbe preoccupare di far funzionare quartieri e rioni, garantendo i servizi di base, che non sono solo funzionali alla sopravvivenza(alimentari, medici, trasporti, etc.), ma dovrebbero badare anche alla qualità della vita e quindi mettere in relazione le persone tra loro.
La sharing economy è sulla bocca di tutti, ma sembra sfuggire ai più che la prima cosa da condividere sia la vita quotidiana, ben prima di un’auto o di un monopattino.