Pensieri | Tempo di lettura 4′ |
Mia nonna nata nei primissimi anni del ‘900 in un piccolo paese della Puglia, si esprimeva spesso con modi di dire e proverbi popolari. Alla lunga faticavo a capire quali affermazioni fossero sue e quali ereditate o sentite dire.
Alcune, più o meno consapevolmente, le ho fatte mie, spesso non citandole fedelmente, ma rendendole un patrimonio a cui appoggiarmi per affrontare alcuni aspetti della vita.
Tutto ciò è accaduto anche perché il figlio, mio padre, ha continuato a citare i suoi genitori, la cui estrazione rurale li ha resi esempi di buon senso e di semplicità.
Molte di queste frasi proverbiali non si limitano a una sola interpretazione, ma si estendono fino a offrire una vera e propria filosofia di vita, esprimendo in una mirabolante sintesi concetti molto più ampi e di larga applicazione.
Il tutto era rafforzato dal dialetto pugliese che alle mie orecchie suonava quasi come una lingua arcaica, attraverso la quale si tramandava la saggezza ai posteri.
In questi giorni una di queste frasi mi risuona in testa più di altre: non si può dire tutto, figlio mio! (vi risparmio il dialetto, sebbene lo ricordi fedelmente).
Nelle parole di mia nonna, il significato si limitava alla necessità di non esprimere sempre le proprie opinioni o di dire necessariamente le verità, perché le persone possono non comprenderle e accettarle.
Io invece voglio ampliarne la gittata e la validità, chiedendomi se anche per i mezzi di comunicazione possa essere applicabile.
Troviamo innanzitutto i motivi di contatto tra le due realtà.
Esprimere un concetto vive di alcuni punti cardinali: deve essere veritiero, deve avere una modalità di comunicazione equilibrata, se ne devono misurare le conseguenze e i benefici.
La mia opinione è che i tre elementi debbano sempre convivere ed essere validi tutti, non perché abbiano lo stesso peso, ma solo perché indispensabili nel loro complesso.
Ovviamente che una notizia sia vera è fondamentale per la sua pubblicazione e qualora non lo fosse, come già espresso in questo articolo del passato, l’autore e la testata dovrebbero essere perseguiti legalmente.
Però al pari sono importanti le modalità di pubblicazione, ovvero i toni e i termini usati, in particolar modo nel titolo o nei sottotitoli.
Infine è necessario il bilancio delle conseguenze, altrimenti si rischia che siano negative e che la notizia faccia dei danni.
A tutto ciò credo si possa obiettare col diritto di cronaca, menzionato anche nel codice penale art.51 come causa di esclusione dell’imputabilità.
E’ infatti certamente innegabile che l’informazione debba svolgere il suo ruolo primario, eppure credo non possa limitare la sua funzione a ciò senza tenere conto degli effetti che produce.
Per arrivare alla contemporaneità e a prendere in considerazione ciò che sta accadendo esattamente ora sul territorio nazionale e non solo, affronto il tema effetti collaterali dei vaccini.
In Italia sono decedute due persone immediatamente dopo aver fatto il vaccino di Astrazeneca, e altrettanto è accaduto in altre nazioni, sempre con numeri molto bassi.
I titoli di quasi tutti i quotidiani di ieri esaltavano questa notizia.
Conseguenza immediata una pioggia di disdette di prenotazioni per i vaccini dell’azienda anglo-svedese.
Su questo tema in particolare non voglio arrivare a conclusioni ma solo utilizzarlo per offrire spunti di riflessione.
E’ giusto informare a ogni costo e lasciare ai lettori la possibilità di arrivare a conclusioni anche errate, dettate dalla paura o dalla superficialità di non aver letto tutto l’articolo?
La missione di un giornalista è solo la ricerca dell’attenzione del lettore o anche il benessere di quest’ultimo, attraverso un’informazione equilibrata?
La cronaca per i mass-media è prioritaria rispetto a qualsiasi altro valore?
Le mie risposte ce l’ho e in parte l’ho esposte precedentemente, si rifanno tutte all’insegnamento ricevuto da Nonna Maria.
PS: Delle quattro prime pagine di quotidiani nella foto, quale scegliereste?