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Non sarebbe bello un mondo senza semafori?
Non intendo esteticamente, perché un po’ di colore non dà fastidio a nessuno e fa lavorare delle persone; mi riferisco alla loro funzione e a ciò che rappresentano.
Ovviamente voglio esasperare un concetto e quello che scrivo è evidentemente parziale, perché io stesso conosco incroci dove senza semafori ci sarebbero persone destinate a invecchiare ferme nella loro auto per giorni interi e altre a piedi costrette ad attendere la notte per tornare a casa.
Però ne conosco tanti altri dove, dopo aver spiegato alle persone che chi proviene da destra ha la precedenza e che il pedone ha diritto di attraversare, il semaforo potrebbe essere superfluo.
Eppure di questi pali luminosi, apparsi circa cento anni fa, ne è pieno il mondo, perché non basta fissare delle regole per ottenere i risultati attesi.
Serve andare oltre e non solo installare un semaforo, ma anche prevedere multe e sanzioni per chi non lo rispetta.
Basti pensare che anche laddove proprio non serva un semaforo, negli ultimi anni si è scelto di introdurre le rotatorie per ridurre gli incidenti.
Insomma le regole da sole assolutamente non sono sufficienti.
Ed ecco allora che arriviamo ai giorni nostri in cui i semafori sono i DPCM che il governo sforna sempre più di frequente.
Molti si chiedono se siano necessari e se non bastino le norme già introdotte. La risposta credo sia sotto gli occhi di tutti. Basti vedere il video girato ieri in un impianto sciistico di risalita a Cervinia, e personalmente non ho bisogno di andare così lontano ma solo di guardare sotto il mio balcone o fare una passeggiata a Trastevere.
La triste realtà è che si è provata una via morbida delegando alle persone la responsabilità di contenere il virus con comportamenti più attenti e purtroppo non ha funzionato, né qui né altrove nel mondo. Credo che lo stato attuale delle cose sia dettato da due fattori: capacità e incapacità. La prima, sicuramente principale e preponderante, è quella del virus di diffusione; la seconda è quella delle persone che in molti casi non sono riuscite a limitare la loro vita precedente e hanno continuato a vivere con accorgimenti probabilmente insufficienti.
Se quella che stiamo vivendo è una guerra contro un nemico invisibile ma che fa vittime e feriti come le armi, immagino di tornare indietro nel 1943 nella mia amata città.
Durante i bombardamenti o quando per avere il pane si assaltavano i forni, credo che le persone non pensassero nemmeno lontanamente di uscire durante i primi o di lamentarsi per l’assenza del prosciutto da accompagnare al secondo.
Invece nel 2020 le persone non sono disposte a rinunciare a uno status di benessere totale(vacanze, cene, shopping…), considerando tutto ciò la vita stessa, si  limitano a fare tutto con prudenza(non sempre) ma senza privarsene.
Accade però che la comunità non applichi le regole e quindi ci si trovi comunque a rischio contagio, perché si scia da soli ma si sale in alto tutti insieme, perché in Sardegna si sceglie una caletta solitaria ma si prende il traghetto o l’aereo, perché in fila per entrare in un negozio si ha la mascherina alzata ma quello davanti forse no.
E allora si arriva a questo punto, quando poi si rischia di non poter fare più nulla, di trovare i negozi chiusi, così come i cinema, i teatri e le palestre. E a quel punto i gestori di queste attività si affannano a spiegare che sono luoghi sicuri, che non provocano contagi, quando in realtà nessuno sa realmente la genesi e la catena di diffusione.
Allora invece di gridare contro chi ci governa a tutti i livelli, che di certo ha grandi colpe e dovrebbe prendersele, guardiamoci allo specchio e poniamoci qualche domanda, perché forse qualcosa l’abbiamo sbagliata anche noi.